Ci sono due momenti fondamentali in cui Polirone è stata fondamentale per Praglia: il primo vero storico di Polirone, don Benedetto Bacchini, alla fine del Seicento, già li segnalava nell’inedito libro VI della sua Storia dell’abbazia mantovana.
Le origini. Polirone è “l’abbazia madre” di Praglia? Noi non sappiamo da dove venissero i primi monaci di Praglia (forse anche da Polirone), siamo però abbastanza sicuri che Praglia non è stata fondata da Polirone, ma con ogni probabilità da una nobile famiglia insediata tra il Padovano e il Vicentino. Eppure il primo documento in cui compare il nome di Praglia (in loco Prataliae, forse già il monastero c’era, anche se agli inizi) è una donazione fatta nel 1107 a Polirone da parte del personaggio che è considerato il nostro fondatore, il conte Uberto Maltraverso. E la presenza della famiglia dei fondatori, come protettori laici del monastero, e quella di Polirone, come garante e maestra della serietà di una vita monastica seria nella nuova comunità, ne accompagnano i primi tre secoli di vita. Inserisce anche saldamente Praglia nel movimento di “riforma” della Chiesa che aveva avuto nella contessa Matilde un intelligente e pugnace “braccio” secolare. Praglia è stata fondata certamente durante il “regno” di Matilde, o nella data tradizionale del 1080, o, più probabilmente, intorno alla prima decade del XII secolo. L’abate di Praglia veniva scelto inizialmente tra i monaci di Polirone (poi anche tra i monaci di Praglia, dal 1260), e sempre dall’abate e dalla comunità di Polirone, fino a Mauro (1292-1304), che è ancora oggi ricordato nel nostro monastero da una lapide alla base del campanile che aveva fatto ricostruire: e che nel 1304 lasciò Praglia per diventare abate di Polirone. Più che di una dipendenza, si tratta di una tutela di un monastero consolidato ed esemplare su una realtà giovane e fragile: ad conservandam ibi et augendam religionem (per conservare in quel luogo e incrementare una seria vita monastica: Callisto II, nel 1124). Gli storici hanno notato che la formula è la stessa con cui papa Gregorio VII aveva affidato Polirone a Cluny (1077-1080) con il consenso della grande contessa Matilde. Quindi: da Polirone, Praglia assumeva il modo concreto di vivere la vita monastica, che era quello che Polirone stessa aveva assunto da Cluny, e la garanzia era la presenza di un superiore formato nell’abbazia-modello, da cui (nei due casi) si manteneva per il resto l’indipendenza. Questa è stata l’impronta effettivamente ricevuta da Praglia grazie a Polirone. Due manoscritti, rimasti nella biblioteca del nostro monastero fino a Napoleone, ne sono una preziosa testimonianza: il libro di consuetudini liturgiche cluniacensi, integrato per le necessità proprie di Polirone, portato certamente da uno dei primi abati; e il Messale con cui nella nostra Chiesa si è per secoli celebrata l’Eucarestia, della seconda metà del secolo XII, certamente di origine benedettino/padana e molto probabilmente polironiano. Libri usati effettivamente e aggiornati fino al 1400. E certamente gli abati che venivano dal mantovano si ricordavano bene del loro monastero, se al momento di costruire una nuova chiesetta per la cura pastorale dei pochi abitanti nelle adiacenze del monastero (che è l’attuale sede della parrocchia di Praglia) le hanno dato lo stesso titolo della chiesa polironiana di san Biagio di Gorgo (l’isola su cui era costruita è adesso inglobata nel territorio del comune di San Benedetto Po). Praglia non è stato l’unico monastero ad avere legami di questo genere con Polirone, ma è l’unico sopravvissuto, in sostanziale continuità, fino ad oggi. E attraverso Polirone, ci sono due caratteristiche del “modello cluniacense” che hanno continuato e in parte continuano a improntare la vita di Praglia: una spiritualità e una organizzazione concreta della vita modellate sulla Liturgia, celebrata questa, per quanto possibile, in base alla forze a disposizione sul posto, degnamente e solennemente; e l’attaccamento (intelligente) a una tradizione, a un modello ricevuto e sperimentato: nel caso di Polirone e quindi poi di Praglia, quello di Cluny, che a sua volta ripropone la lettura della Regola che nel periodo carolingio, grazie a san Benedetto di Aniane, segna la nascita del monachesimo benedettino propriamente detto.
La rinascita di Praglia. La nostra abbazia non è sfuggita alla crisi generale dei monasteri benedettini “neri” (tradizionali) nell’Italia del XIV secolo. La sua sopravvivenza, anzi una vera rinascita, è effetto dell’ingresso nella Congregazione di Santa Giustina. Ma non è stato un ingresso facile, le trattative sono iniziate nel 1425, e la questione si è sbloccata soltanto con la nomina nel 1444 ad abate di Praglia da parte di papa Eugenio IV, di don Cipriano Rinaldini, originario dei Colli Euganei ma monaco di Polirone, che già dal 1420 apparteneva alla Congregazione. Non fu cosa scontata: Praglia era ancora autonoma, e i monaci che la Congregazione “imprestò” al Rinaldini (tra cui uno di San Benedetto Po) non ebbero vita facile con gli “inquilini” precedenti. Quattro anni di lavoro, al termine dei quali don Cipriano rinunciò alla sua carica di abate e cedette il monastero, dove la vita regolare era ormai dignitosa, c’erano state 10 nuove professioni e l’economia si avviava a ristabilirsi, alla sua Congregazione di Santa Giustina: che da allora ha cambiato più volte nome, ma continua nella Congregazione Sublacense Cassinese, di cui il nostro monastero è tuttora parte. Rinaldini non rimase abate di Praglia, perché in quel periodo il mandato abbaziale durava un anno (ne fece altri tre). Probabilmente è l’abate Rinaldini ad essere rappresentato in ginocchio davanti alla Vergine in maestà, che tiene nella mano la chiesa medievale di Praglia. È il pannello centrale del polittico di Antonio Vivarini che ora si trova a Brera, antica pala dell’altar maggiore che, probabilmente fu realizzata in quegli anni assieme al crocifisso tardogotico che era sospeso tra coro e navata, e ancora è conservato nella chiesa rinascimentale. Fu anche il Rinaldini a introdurre a Praglia la liturgia della Congregazione, che però doveva molto a quella cluniacense-polironiana: il Messale polironiano delle origini fu sostituito, probabilmente da un bel Messale manoscritto secundum morem et usum Congregationis Sanctae Justinae de Padua, scritto appositamente per Praglia e conservato a Perugia, recentissimamente scoperto (anno 2022). Don Cipriano finì la sua vita come abate di san Giorgio Maggiore di Venezia, dove diede inizio anche a una “campagna” di allestimento di nuovi libri corali che sta all’origine della preziosa raccolta che è ancora in possesso del monastero di San Giorgio. Con l’appartenenza alla stessa Congregazione i contatti tra Praglia e Polirone sono naturalmente di nuovo tornati stretti, con scambio di monaci e anche di abati: il grande Gregorio Cortese, un anno prima di venire come abate a San Benedetto Po e di dare inizio, tra l’altro, al cantiere rinascimentale della vostra basilica, ha passato un anno a Praglia come abate. La riforma di Santa Giustina è un esempio di fedeltà creativa alla grande tradizione monastica, ed è al tempo stesso per noi una eredità preziosa, soprattutto per la sua cura di una vita religiosa personale (non esclusivamente liturgica) intensa, e per l’amore alla cultura e alle arti, come riflesso della gloria di Dio e dell’armonia ristabilita dalla Redenzione. L’idea a cui dobbiamo lo splendore rinascimentale di Polirone e, più in piccolo, del monastero di Praglia. Per un azzardo della storia Praglia ha potuto rinascere dopo il passaggio di Napoleone, il che non è accaduto per San Benedetto Po: ma in Praglia è continuato più di qualcosa dello spirito che ha animato per ottocento anni la vita dell’abbazia mantovana.
Il 19 ottobre 1547 veniva consacrata la basilica del monastero di san Benedetto in Polirone, dopo le trasformazioni volute dall’abate Gregorio Cortese che ne hanno fatto un capolavoro rinascimentale. In occasione del quarto centenario vennero invitati i monaci di Praglia. Si legge nella Cronaca al giorno 20 settembre 1947:
«Giornata memorabile. L’intera comunità di Praglia e gran parte di quella di Santa Giustina, con a capo il padre priore [di Praglia] e l’abate di Santa Giustina [d. Timoteo Campi, antico maestro dei novizi a Praglia], in torpedone si sono recati a San Benedetto Po (Mantova) per celebrare una “giornata benedettina” in occasione delle feste centenarie della consacrazione dell’insigne chiesa monastica [19 ottobre 1547]. L’incontro è stato commovente. La popolazione ha lungamente applaudito il corteo dei monaci dall’antico appartamento abbaziale alla chiesa, ha pontificato l’abate di Santa Giustina: il canto gregoriano sostenuto dai monaci, il discorso di mons. Stella, vescovo della Spezia. Dopo il pontificale il p. abate ha dato la benedizione dalla loggia all’immensa folla. Per il pranzo, con simpatica iniziativa, hanno pensato le migliori famiglie invitando uno, due o tre di noi. Tutti ci hanno trattati bene. È stato un giorno di profondi ricordi e d’acuta nostalgia, ripensando all’abbazia madre di Praglia. Molti auspicano il ritorno sollecito dei monaci».
Queste partecipazioni alle feste di famiglia della comunità cristiana e civile di San Benedetto Po, che custodisce e valorizza in modo ammirevole il complesso monastico si sono ripetute più volte. Domenica 22 settembre 2024 l’abate Stefano ha chiuso le celebrazioni del millenario di canonizzazione di san Simeone, l’anacoreta pellegrino armeno che ha passato gli ultimi giorni da ospite venerato nell’abbazia mantovana: degli antichi rapporti tra Praglia e Polirone ha parlato nel chiostro di san Simeone alle 12.00 presiedendo poi alle 18.00 una Messa solenne e partecipata, e tenendo l’omelia.
OMELIA DEL PADRE ABATE
“Più grande e più piccolo; chi governa (leader) e chi serve. È solo una lezione sulla leadership come servizio? La discussione tra i discepoli su chi fosse il più grande nasconde in realtà anche la domanda sul fine per cui uno si è fatto discepolo. Che ti aspetti? Che vuoi raggiungere?
La Regola di S. Benedetto rivolge a un sacerdote che aspira a entrare nella comunità le parole che Gesù ha rivolto a Giuda: “Amico, che sei venuto a fare?” (RB 60.3).
In altri termini, che ti aspetti? Che vuoi raggiungere? Qual è il tuo fine?
E noi, qual è il nostro fine? Il nostro scopo? Che ci aspettiamo? Cosa vogliamo raggiungere?
Benessere psico-fisico; salute, armonia; vita lunga.
Saggezza per affrontare la vita; norme etiche di comportamento.
Benedizioni da Dio, che allontanino vari tipi di disgrazie.
Coraggio per affrontare la vita con le sue sofferenze e la morte.
La vita eterna, la salvezza.
La vita cristiana nel suo complesso deve però essere intesa come sequela di Cristo.
San Simeone armeno intraprese una sequela ancor più̀ radicale di Cristo, dando alla sua vita la forma del pellegrinaggio permanente, secondo una consuetudine diffusa soprattutto tra i cristiani d’Oriente.
Le parole chiave qui sono: sequela e movimento permanente.
Si tratta però di crescere in un rapporto, in una relazione personale.
Relazione personale che, da un lato, si può descrivere come un movimento che dall’esteriorità va verso l’interiorità.
Sequela: dobbiamo compiere ciò che ascoltiamo. Come discepoli dobbiamo seguire le istruzioni del Maestro. Obbedire. Scegliere di essere governati da un altro.
Imitazione: non solo ci conformiamo a delle istruzioni oggettive, ma cerchiamo di vivere come Cristo ha vissuto, di agire come Egli ha agito. I Vangeli non danno solo informazioni sulla vita di Gesù, ma lo propongono come modello da imitare.
Somiglianza: qui non si tratta solo di cercare di ripetere ciò che Cristo ha detto o ha fatto, ma di cercare di essere come era Lui. Gradualmente assumiamo il compito di essere rappresentanti di Cristo nel nostro ambiente.
Partecipazione: oltre la somiglianza ci sta l’identificazione, secondo quanto dice S. Paolo: non sono più io che vivo ma Cristo vive in me (Gal 2, 20). Partecipare alla soggettività di Cristo è lo scopo della vita cristiana/monastica: essere e vivere “in Cristo”.
Questo movimento si deve unire con uno opposto che va dall’interiorità verso l’esteriorità. Qui è importante la relazione di volontà, di “amore”, la dimensione mistica che non può mancare in ogni vita cristiana.
Il Cap. 4 della Regola di S. Benedetto illustra certamente una serie di 74 strumenti dell’arte spirituale; azioni da compiere o da non compiere per divenire discepoli e mettersi alla sequela, alla scuola, di Cristo. Il traguardo non è pero il solo uso degli strumenti, ma il loro uso unito allo “zelo bono” che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna (RB 72,2); dove “zelo buono” è un sinonimo di “carità cristiana”, di “agape”.
Gli strumenti dell’arte spirituale vanno usati nell’amore/agape che nasce come risposta all’amore di Dio, della Grazia, dello Spirito, entrando in quel dinamismo che lega il Figlio al Padre: redamare dicevano S. Agostino e S. Bernardo.
Gli strumenti vanno usati nella consapevolezza della presenza di Cristo (il Dio-con-noi) nella nostra vita: Lui il Capo e noi le membra legati da quell’unico Spirito che è Amore. Crescere nella consapevolezza della presenza di Dio in noi, significa crescere nell’amore di Dio, perché Dio è “amabile” diceva S. Bernardo e trovarlo significa amarlo in ogni sua manifestazione”.